Groenlandia: il fascino dei confini del mondo

Ci si potrebbe chiedere come abbia fatto l’uomo a vivere in uno degli ecosistemi più inospitali, eppure, l’isola più grande della terra, battezzata Grønland, ovvero “Terra verde “, dall’esploratore vichingo Erik il Rosso nell’XI secolo, è abitata presumibilmente sin dalla preistoria. Certo che sembra quasi un ossimoro accostare l’aggettivo “verde” a una terra ricoperta di ghiaggio: “È uno scherzo vero?”. Molti pensano che sia stata una vera attività di maketing medievale mirata a incentivare la colonizzazione. Ma vi immaginate la frustrazione di chi, dopo una traversata impetuosa, si ritrova una situazione ben diversa? Pensiamo alla nostra delusione da bambini quando la mamma acquistava le merendine al cioccolato, che sistematicamente avevano un quantità di contenuto molto scarsa, se paragonata alla foto, e la tiravamo persino sulla faccia della mamma dicendo: “Non la voglio!” L’impervità ha certamente richiesto grandi adattamenti, oltre che una vita in simbiosi con l’ambiente circostante, che è messa in luce dalla saggezza popolare, tramandata soprattutto oralmente, attraverso racconti, miti e filastrocche. Una delle figure più caratteristiche del folclore è Sedna, la Madre del Mare: secondo questa leggenda la dea trattiene le foche e i pesci sul fondo dell’oceano a ogni violazione dell’equilibrio della natura. Solo successivamente alla purificazione degli sciamani era possibile ritornare alla pesca. Gli inuit affermano “Qanoq ililluta, iliorfigiuk“, che significa “Qualunque cosa accada, sii forte”. Inoltre, una filastrocca recita

Nuna qajaq, imaq qajaq,
La terra è una barca, il mare è una barca,
Ilanngaarsuk qajaq,
La foresta è una barca,
Qimmit qajaq,
I cani sono barche,
Inuk qajaq.
L’uomo è una barca.

Espressioni semplici, che mettono in luce quanto possa essere complesso vivere nella regione, da una parte, oltre che il rispetto della natura, un concetto che sta facendo particolarmente rumore nei canali di comunicazione, ma che un popolo come quello groenlandese ha in realtà nelle vene, sin dalle epoche più remote. Forse è proprio questo che mi incuriosisce parecchio della Groenlandia: la voglia di staccare dal mondo, di mettermi in contatto con la natura, di provare emozioni di stupore davanti a un gruppo di foche sopra un ghiacciaio a strapiombo sulle gelide acque artiche, interagire con chi il posto lo vive, e comprendere, magari, le loro incertezze dovute ai repentini cambiamenti del loro ecosistema, della loro casa!

La simbiosi non è qualcosa di poetico, ma è una necessità, la sopravvivenza passa per l’adattamento: l’uomo deve piegarsi alla natura, seguendo i suoi cicli e sfruttando al massimo le limitate risorse del luogo. Dunque, le attività di caccia seguono i ritmi migratori degli animali; mentre le case tradizionali (tupiq) venivano costruite con materiali locali, come pelle di foca e ossa di balena. Vista questa relazione stretta, possiamo solo immaginare quanto possa essere complesso accettare i cambiamenti climatici drastici: non c’è da stupirsi se la popolazione sia stressata e abbia paura per il futuro. D’altronde, proviamo a pensare: “Come reagiremmo se ci dicessero che domani dovremmo lasciare la nostra casa, le nostre abitudini, i nostri amici, perché non è più agibile? A riguardo, mi vengono in mente le interviste post terremoto in Abruzzo nel 2009, in cui intere famiglie sono state costrette a trasferirsi a diversi chilometri di distanza, in dei “non luoghi”!

Insomma, si tratta di una cultura da cui, probabilmente, avremmo molto da imparare, in un mondo occidentale sempre più alla ricerca del controllo meticoloso. Un viaggio in Groenlandia, dunque, può essere prima di tutto una esperienza di ritorno alle origini, mi auguro di potere vedere con i miei occhi prima o poi!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *